Mai dire… MAO!

E’ proprio vero: nella vita non bisogna mai dire mai… Mai pensare che qualcosa non accadrà, che non farai mai qualcosa perché poi, tanto, alla fine, è lei a decidere, la Vita. E’ lei che ti porta, come nel mio caso, a chiederti perché mai non dovresti provare a digiunare, ad astenerti da bevande, cibi, fumo, alcool, sesso… perfino dal masticare un cicles, come li chiamiamo noi torinesi, per un intero mese, dall’alba al tramonto, un po’ come fanno i credenti, anzi per meglio dire i praticanti, di religione islamica, i musulmani, nel nono mese del calendario islamico, chiamato رمضان ‎, ramaḍān.

Questo però non sarà un articolo su cos’è il Ramadan, perché nel 2022, con una pandemia globale alle spalle (o forse ancora in corso…) e con una guerra quasi mondiale alle porte… Dopo vent’anni dalla caduta delle Torri Gemelle… Io francamente non ci credo che non lo sappiate già e, al limite, potete facilmente trovarne informazioni e spiegazioni, ormai alquanto veritiere, digitando su un qualsiasi motore di ricerca. Questo articolo vuol esser un modo per spiegare a voi, ma soprattutto a me stessa, o più semplicemente per raccontarvi, cosa porta una persona come me, cresciuta in Italia, in un ambiente familiare, scolastico… per lo più di impronta cristiano-cattolica, a seguire quello che è il quinto pilastro fondamentale dell’islam, il digiuno, all’età di 23 anni, fino ai 30, dal 2006 al 2013.

Sicuramente giocò un ruolo importante avere all’epoca un fidanzato – diventato perfino poi un marito – algerino per il quale il Ramadan era l’unico precetto che sentisse di dover seguire alla lettera… Da brava fidanzatina, come avrei potuto lasciarlo da solo, in un paese straniero per lui, ad affrontare un lunghissimo mese di astinenza, appena giunto in Italia? E così, un po’ per amore, un po’ per caso, un po’ per gioco… Mi buttai in questa avventura, nata quasi più per gara, sfida tra di noi, non avendo lui – da bravo maschio alfa – alcuna fiducia in me e nella mia buona riuscita. Al contrario, già il primo anno ed ancor di più negli anni successivi, diventai a dir poco (scusate la modestia!) davvero brava, per esser una neofita, arrivando a sorprendere in primis me stessa, non avendo neanch’io nessuna aspettativa ben precisa a riguardo: mi alzavo al mattino prestissimo, prima dell’alba, per il سحور, suḥūr, il primo ed unico pasto consumato al mattino, prima di iniziare il digiuno (in arabo ﺻﻮﻡ‎, ṣawm). Tenendo conto che nell’arco di quei 7 anni il mese di Ramadan passò da settembre/ottobre a luglio, mi capitò di sperimentare questa pratica proprio nei mesi più caldi ma soprattutto nei giorni più lunghi dell’anno… Non lo dico per vantarmene ma per dire che la forza di volontà fu ciò che mi aiutò moltissimo: credere fermamente in qualcuno, in qualcosa… a partire proprio da me stessa e dalle mie capacità.

Nell’islam si dice che l’intenzione è meglio dell’azione: se l’intenzione è giusta l’azione ha più valore e raggiunge lo scopo, ma se l’intenzione è sbagliata vanifica ogni sforzo e rende inutile ogni opera. Questo fu il primissimo insegnamento tratto dal digiuno. Quello che ne conseguì fu che imparai a iniziare e finire (bene) qualcosa, ciò che mi ero posta come obiettivo. In questo sono sempre stata abbastanza portata ma il digiunare a Ramadan solidificò questa mia attitudine, facendola diventare un mio pregio. Imparai a prendermi cura di me stessa: quello svegliarmi al mattino, nel silenzio più assoluto, fare le mie abluzioni (ebbene sì, non l’ho mai confessato a nessuno, neanche all’allora mio fidanzato/marito algerino… Ma provai anche a pregare in quel periodo dell’anno, mettendo a frutto le conoscenze di lingua araba e leggendo e ripetendo versetti del Corano e preghiere islamiche…)… Era un’attenzione verso me stessa che fino ad allora non ero riuscita mai a ritagliarmi. E prendendomi cura di me stessa, imparai a farlo anche con gli altri, perché la cura di sé passa anche attraverso quella che si dona all’esterno. Tutto questo dà pace, sollievo… Così ritrovai me stessa in quel silenzio mattutino, ma anche interiore. Ritrovai una luce: all’inizio fu come un calore, un calore proprio fisico. Ricordo che una mattina mi alzai e chiesi preoccupata al mio fidanzato: “Ma anche il tuo corpo diventa bollente con il digiuno?”; lui mi rispose che era normale, le prime volte. A me così normale non pareva proprio, tenendo conto che mi sembrava proprio di aver la febbre ma febbre non era, per lo meno per il termometro: era calore, fuoco, quell’ardere di fede, credo, passione… che poi sprigiona in una luce all’esterno, negli occhi, nello sguardo, nel sorriso, nella serenità che emani e che gli altri notarono in più di un’occasione. Forse era ciò che per lui, nato e cresciuto con quell’esperienza vissuta e provata fin da piccolo, era la normalità delle cose. Per me non lo era affatto e fu ciò che mi sorprese di più: provare “febbre”, “brivido” per qualcosa di così astratto, elevato… Una sensazione a dir poco inesprimibile a parole.

E allora la domanda nasce spontanea, no? Perché oggi non digiuno più? Perché la crisi dei sette anni esiste davvero e in tutti i contesti e le salse, anche nei rapporti con una religione, con un credo, con qualcosa di astratto… Perché non sono praticante nella mia religione di origine, per così dire, perché esserlo o diventarlo in un’altra? Seppur sia stata sicuramente per me l’esperienza spirituale più sentita, intensa e soprattutto scelta, una vera e propria purificazione dell’animo ancor prima che del corpo, capii che per me – che, parliamoci chiaro, non sono mai stata una convertita all’islam e quindi da tale scrivo e parlo di ciò -, da quell’esperienza andavano trattenuti solo gli insegnamenti che mi diede e che porterò sempre con me.

Il più grande insegnamento, oltre a quelli che ho citato (anche se ce ne furono sicuramente altri, anche più impliciti che in qualche modo “assorbii” in quegli anni… Come il dono della pazienza, del sapere attendere, del sapersi fermare…) è la gratitudine, perché come si legge nella seconda sura, in arabo “capitolo”, del Corano, dal titolo tradotto in italiano così “La Sura della Vacca”, al versetto 185:

“E il mese di رمضان‎, ramaḍān, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvazione, non appena ne vedete la nuova luna, digiunate per tutto il mese, e chi è malato o in viaggio digiuni in seguito altrettanti giorni. Iddio desidera agio per voi, non disagio, e vuole che compiate il numero dei giorni e che glorifichiate Iddio, perché vi ha guidato sulla retta Via,
nella speranza che Gli siate grati.”.

Per me, nel mio piccolissimo e modestissimo mondo, di persona che più per i casi della vita che per altro, è letteralmente piombata in questo mondo arabo-islamico, il Ramadan – e con esso il digiuno – mi ha dato più di quello che mi aspettassi, che potessi mai immaginare e a me è bastato.

Oggi, sempre in virtù di quel senso di gratitudine così appreso, ringrazio di vivere in una città come Torino, la mia città natale, l’unica dove davvero potrei mai vivere (o meglio invecchiare!)… E di città ne ho “vissute”, nel senso letterale del termine: da Reggio Calabria, in casa, tra sapori, saperi e un dialetto che capivo alla perfezione ma non parlavo, per poi giungere all’età di 19 anni ad Ordona, alla ricerca delle mie origini per metà pugliesi, con un sacchetto di taralli in mano. E dopo piombare a Parigi, Aix-en-Provence, Marsiglia e, in seguito, all’esatto opposto del Mediterraneo, ad Algeri e a Tizi Ouzou, nell’entroterra, nel cuore della Cabilia, una regione sconsigliatissima, se non bandita dal sito della Farnesina e sulle cui strade mi trovai a guidare un’auto noleggiata all’età di 25 anni scarsi, terminando il mio giro al Cairo ed infine, ad Alessandria d’Egitto!

Ora, a Torino, c’è un museo dedicato all’arte orientale, il MAO. A questo museo io devo molto perché al suo interno, c’è un piano interamente dedicato all’arte islamica, una vera e propria galleria islamica dove sono esposti diversi esemplari di Corano, tra le varie opere per lo più originarie di paesi non africani di religione islamica dell’area geografica che, partendo dall’Egitto va verso il cosiddetto Medio Oriente. Singoli fogli tratti dal testo coranico, scritti nei vari caratteri calligrafici arabi, da quello cufico, forse il più antico stile calligrafico della città di Kufa in Iraq, a quello noto come محقَّق muḥaqqaq (che significa “consumato” o “chiaro”), da quello maghribi مغربي perché del Nord Africa e della zona dell’Andalusia, a quello naskhī dalla radice araba نسخ‎ che significa “copiare”… al ثلث thuluth, letteralmente “un terzo” per l’inclinazione di un terzo di ogni lettera, tipica di questo carattere.

Andare a visitare questa galleria – seppur di dimensioni più piccole rispetto alle altre quattro in cui il museo si snoda e che presentano opere dell’Asia meridionale e del Sud-est asiatico, la più importante collezione di arte funeraria cinese presente in Italia, opere d’arte giapponese religiosa e profana, arte della Regione himalayana – ammirandone queste pagine di Corano insieme a frammenti di decorazione architettonica, pannelli, mattonelle, copricuscini o pezzi di tessuto destinati a volte anche alla produzione di abiti di provenienza per lo più da Bursa, con motivi decorativi che, richiamando il crescente lunare, rimandano alle scienze esatte… E portarci te, Simone, è stato il mio atto di gratitudine alla vita.
Che nessuno me ne voglia, ma questo è il mio personalissimo Ramadan (un po’ come capita di vivere in modi diversi il Natale o altra festività religiosa o meno che sia…): entrare in una cultura o una religione, propria o altrui che sia, attraversandola, per decidere anche di uscirne, facendo proprio ciò che c’è di arricchente ed arrivando a riproporlo in semplici gesti quotidiani, anche al di là ed al di fuori di un mese, un periodo specifico dell’anno, e lasciandone fuori ciò che potrebbe esserci di nocivo per noi e per gli altri.

Questo per me è il miglior dono che il dialogo interculturale e interreligioso potesse donarmi e che io cerco di donare a voi in questo blog, sperando di riuscire nel mio intento.

Per saperne di più:

Sul MAO – Museo Arte Orientale:
Pagina Facebook e Instagram
Galleria di fotografie scattate da me lo scorso novembre 2021

Sul Ramadan:
Video di Samia Makhloufi del Progetto Anzaar dell’Università degli Studi di Torino
Pillola Migrantour 19 di Hassan Khorzom
Pillola MIgrantour 21 di Hassan Khorzom

Come su una nuvoletta…

E’ passato ormai quasi un anno dall’ultimo articolo che pubblicai qui. Un anno letteralmente volato, trascorso come se mi fossi ritrovata su una nuvoletta di fumo: un giorno costruivo qualcosa, mi sentivo di avanzare verso un obiettivo, il giorno dopo era tutto, quasi come per magia, scomparso, svanito… Come sparisce il fumo, in un battito di ciglia!

Finché ieri, chattando per caso con una persona conosciuta tempo fa con cui condivido la stessa passione per il mondo arabo, non propriamente un’amica quanto più che altro qualcuno che incroci sul tuo cammino una volta sola e che poi resta là, silenziosa ma presente e preziosa, viene fuori che questo blog è qualcosa di ben pensato, un luogo in cui “si ha l’impressione di entrare nel diario di qualcuno”, qualcosa di persona ma al tempo stesso coraggioso perché non parla tanto e solo di curiosità culturali ed artistiche di matrice arabo-islamica ma soprattutto di me e del mio rapporto, in questi anni, con tutto questo.
Così, in un attimo, si sfatano tutti quei miti in negativo che in passato mi vedevano come un’alunna che proprio non sapeva scrivere in italiano o meglio che sapeva farlo ma senza esprimere un granché (ebbene sì – ahimè – fin quasi ai tempi dell’università e della mia prima tesi di laurea!!!)… e così stamattina le parole sono uscite quasi da sole, forse più per me, che per voi; più per quell’effetto quasi catartico, liberatorio che la scrittura (di getto, non scrivo mai in brutta… Sapevatelo!) ha su di me e chissà che magari, oltre a servire a me, questo blog non serva anche ad altri. Ora più che mai.

Quest’articolo vorrei dedicarlo a quella sensazione di stare come su una nuvola che mi ha accompagnato quest’anno (con la speranza che mi abbandoni d’ora in avanti, lasciando spazio più ad un bell’arrosto… e non tanto solo al fumo!), ma anche a questa persona che, con così poco, è stata davvero capace di smuovere qualcosa dentro di me. Per questo lo dedico al fumetto arabo, con particolare attenzione a uno degli ultimi di mia conoscenza, tradotto in italiano da Enrica Battista: Marmellata con laban (come mia madre è diventata libanese)” di Lena Merhej ed edito da Mesogea.
Il graphic novel, pubblicato nel 2011, racconta la storia della madre dell’autrice di origine tedesca, che arriva in Libano negli anni della guerra civile. Con un senso dell’umorismo a dir poco brillante, la fumettista ci racconta la complessità vissuta da sua mamma, che impara pian piano a convivere, anche in modo divertente, con una cultura, un popolo, un paese differenti, a volte anche difficili da capire.

Proprio in questi giorni si sta tenendo una sorta di tour letterario di questo fumetto condotto da autrice e traduttrice, impegnate in laboratori, seminari, live drawing e incontri con il pubblico in varie città del nord Italia. A Torino arrivano il prossimo lunedì 28 (alle 16 presso l’Università di Torino, palazzina Aldo Moro in collaborazione con Gruppo Anzaar) e martedì 29 marzo (alle 18.30 presso la Libreria Trebisonda di Via Sant’Anselmo 22 per un Live drawing musicato + incontro dal titolo “Laboratorio culturale autogestito Manituana”).

Lo ammetto, come per i circoli di lettura di cui vi dicevo nel mio ultimo articolo, anche dei fumetti non sono una grandissima amante (li sto riscoprendo ora, grazie a un figlio settenne che si sta appassionando a “Topolino”… E come biasimarlo, del resto!): sarà perché forse perché già solo l’etimologia di questa parola deriva dall’inglese con cui non ho un bel rapporto (tranquilli, c’è qualcosa e qualcuno che mi aggrada e con cui vado d’accordo…), il termine balloon, ad indicare la nuvoletta di fumo dalla quale fuoriescono i dialoghi dei personaggi. Il fumetto, inoltre, ha proprio origine americana, per la sottoscritta altra pecca… e solitamente è un genere letterario molto diffuso e per lo più rivolto ai bambini, almeno all’inizio, quando nacque. Approdò in Italia soltanto nei primi del ‘900, dove le famose nuvolette, in cui venivano riportati i dialoghi dei protagonisti, divennero didascalie in rima a piè di ogni vignetta.

In passato relegati, quindi, a ruolo secondario, appannaggio dei bambini, da una decina di anni a questa parte fino ad oggi, in particolare nel mondo arabo, i fumetti parlano anche agli adulti. Considerati ora un’arte completa, sono strumento di divulgazione storica e non solo, espressione e voce del quotidiano, non necessariamente dall’approccio politico, come si è soliti pensare, quanto più che altro fungono da specchio della realtà.

Nel mondo arabo hanno una lunga e ricca storia, sono parte integrante della cultura, arrivando a trattare anche tematiche importanti e ricorrendo sempre più spesso alle diverse varianti dialettali della lingua araba. L’uso della forma dialettale è quasi come uno schiaffo alla cultura centralizzata, sovente imposta dall’alto: è proprio dal ricorso al dialetto che nasce la questione della legittimità del fumetto arabo.

E’ infatti corretto parlare di un “fumetto arabo” propriamente detto? O forse, un po’ come capita per tanti altri aspetti di questa cultura, sarebbe più opportuno parlare di un fumetto marocchino, tunisino, egiziano,… ? Qualche anno fa, nel 2015, fu proprio questa la questione focus del Festival internazionale del fumetto tenutosi al Cairo, in Egitto.

L’anno scorso seguii un incontro online dal titolo “Chiacchierando sulle nuvole: il fumetto nel mondo arabo” a cui presero parte proprio Enrica Battista, esperta arabista e ricercatrice, nonché amante del mondo arabo e lettrice instancabile sempre alla ricerca di novità, qui nella veste di responsabile di Arabook.it, di Kutubiyat, una libreria specializzata in editoria in lingua araba nata nel 2007 da una sua idea, Simona Gabrieli, fondatrice della casa editrice ALIFBATA con sede in Francia a Marsiglia e Maria Laura Romani, studiosa di fumetto arabo.
In quell’occasione scoprii l’esistenza di fumetti come “Carnet d’Orient” di Jacques Ferrandez sull’Algeria coloniale, “Le pain nu” di Abdelaziz Mouride, adattamente grafico dell’omonimo romanzo di Mohamed Choukri e primo fumetto pubblicato da Alifbata, per il quale il fumettista fu incarcerato e soltanto grazie all’intervento di Amnesty International riusì negli anni Ottanta (precisamente nel 1982) a pubblicare dal carcere un altro fumetto per adulti che parlava degli anni di piombo marocchini, dal titolo “Dans les entrailles de mon pays”.

Non esistono ancora, tuttavia, delle vere e proprie collane editoriali dedicate a questo genere letterario nel mondo arabo: è ancora qualcosa di underground, una sorta di spazio esplorativo nuovo, in termini di grafica ma anche di linguaggio (il dialetto, appunto) utilizzati… Uno spazio a cui ricorrono non solo singoli autori, ma sempre più spesso gruppi di persone, veri e propri collettivi.
E’ il caso, ad esempio, di Samandal, fumetti in arabo, francese e inglese, nato in Libano nel 2007, di Tok Tok, esempio di fumetto autoprodotto da un gruppo di giovani artisti del Cairo sorto in Egitto nel 2011, a ridosso della rivoluzione o ancora nel 2013 in Tunisia il Lab619, collettivo di disegnatori tunisini che realizzano una rivista trimestrale di fumetti, e Skefkef in Marocco, poi ancora nel 2015 Masaha (Iraq), Garage (Egitto) e Habka (Libia)… e poi c’è Tosh Fesh, un’organizzazione senza scopo di lucro avente l’obiettivo di incoraggiare i giovani artisti emergenti nell’arte della caricatura e dei fumetti in tutto il mondo arabo.

Alcuni di questi fumetti sono stati tradotti anche in lingua italiana, come quelli segnalati in questo articolo da Elisa Pierandrei: secondo Enrica Battista, tradurre in una lingua europea queste opere, qualsiasi essa sia, stimola anche altre traduzioni ed edizioni in questa direzione, creando un vero e proprio ponte tra culture.

E allora, non mi resta che dire viva il fumetto e chi lo scrive e lo traduce affinché ci si avvicini, in un modo forse molto più divertente, leggero ma non superficiale, a questo mondo (ironia della sorte vuole che questi fumetti per adulti si sono diffusi proprio negli stessi anni in cui, laureandomi, abbandonavo il mondo accademico e, purtroppo, anche quello legato a questa lingua e cultura… Perché, a volte, la vita prende altre strade…).

E viva e grazie ad Enrica che mi ha fatto ritrovare oggi la voglia di scrivere!!!

Per saperne di più:

www.arabook.it/blog-1/fumetti/
editoriaraba.com/2018/11/12/il-fumetto-arabo-con-samandal-barrack-rima-e-alifbata/
www.swissinfo.ch/ita/cultura/–al-comix-al-arabi–_il-soffio-primaverile-dei-fumetti-arabi/35338122
energivity-consulting.com/it/fumetti-arabi-in-effervescenza/
tlamri.blogspot.com/2005/08/il-fumetto-arabo-e-il-caso-algeria.html

Hai detto “circolo”… a chi?!?!

Con voi, cari lettori, voglio proprio esser sincera su tutto… A me i circoli di lettura non sono mai piaciuti: sarà perché li ho sempre percepiti come un qualcosa che avrebbe messo fretta e ansia alle mie letture e, al contrario, per me (come – credo – per molti di voi) leggere è un viaggiare lento in altri mondi, paesi, epoche… Avere una “data di scadenza” per la lettura di un libro mi è sempre parso, per questo motivo, quasi un’eresia!

Nella vita, tuttavia, bisogna sempre e comunque ricredersi, anche (e forse soprattutto, proprio) su quelle convinzioni ormai assodate, consolidate… Quasi fossero assiomi che danno sicurezza al nostro stesso vivere! Sicuramente devo il merito di avermi fatta ricredere al Circolo di Lettura della Libreria GRIOT di Roma e, in particolar modo, a Chiara Comito, arabista di formazione e blogger per passione di Editoriaraba, che di questo circolo ne è l’ideatrice ed anche una delle principali voci che lo animano.
Grazie a loro, infatti, ho riscoperto questo spazio – oggi obbligatoriamente “virtuale” – di vicinanza, scambio, confronto; uno spazio capace di accogliere tutti coloro che intendano condividere la passione per i libri e per la lettura. Una sorta di “porto franco” per chi intende ritrovarsi nella parola e nella narrazione… A prescindere (aspetto da me praticamente mai considerato!!!) che si sia realmente letto o finito di leggere il libro preso in considerazione, di volta in volta.

Tra febbraio e marzo scorsi ho partecipato a due incontri di questo circolo… Lo ammetto, ho giocato “in casa” visto che si tratta di un circolo che propone prevalentemente letture di scrittori provenienti dal mondo arabo e/o dal continente africano, entrambi ampiamente intesi. Tutte e due gli incontri a cui ho preso virtualmente parte avevano al centro letture di autori arabi, “Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea” di Suad Amiry e “Il giorno del giudizio” di Rasha Al-Amir.

Andiamo, però, per ordine… E cioè facendo un breve appunto sulla letteratura araba (in arabo الأدب العربي‎, al-’adab al-ʿarabī) che, generalmente, racchiude la produzione di testi di varia natura e genere – dalla poesia alla prosa – delle popolazioni che, nel corso dei secoli, hanno fatto uso, nello scritto, della lingua araba anche se magari non erano arabe “tout court”. A partire dal VI secolo d.C. in poi, questa letteratura ha annoverato una miriade di testi che vengono solitamente suddivisi a seconda dell’epoca storica in cui hanno visto la luce, dal periodo preislamico all’inizio di quello islamico (622-750), dal periodo classico (750-1050) a quello del dominio persiano e turco (1050-1700), fino ad arrivare alla rinascita della cultura araba dove si collocano i romanzi di cui vi parlerò qui.

Il primo di questi si inserisce, più nello specifico, nel filone della cosiddetta “letteratura palestinese”, che pare essere, della letteratura araba, uno degli esempi più singolari, significativi e rappresentativi perché espressione di un pezzo di storia molto importante e delicato, non solo della Palestina e del popolo palestinese, ma anche del mondo arabo, quella della nakba (in arabo: النكبة‎al-Nakba, letteralmente “disastro”, “catastrofe”, o “cataclisma”), ossia l’esodo della popolazione araba palestinese durante la guerra civile del 1947-1948, al termine del Mandato Britannico, e durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo la fondazione dello Stato di Israele. 
La letteratura palestinese – come sottolineava Silvia Moresi, arabista e traduttrice, oltre che docente di lingua araba, che ha introdotto questo incontro del Circolo di Lettura – è espressione della Storia con la S maiuscola della Palestina e di quel processo di “ebreizzazione” di un popolo e di un territorio interi. Da questa sua peculiarità deriva la centralità del tema della memoria e dell’oblio e della relativa ricostruzione della storia e dell’identità nazionale e non solo: grazie alla letteratura, per la prima volta, i palestinesi diventano soggetti – e non più oggetti!!! – della loro propria narrazione perché proprio quest’ultima si fa sguardo sull’altro, sul diverso, sull’esterno per definire se stessi.

Per questi motivi, il tema identitario è genericamente molto forte anche se, all’interno di questa letteratura, si possono rintracciare tre filoni letterari: il primo degli autori palestinesi in esilio, il cui tema principale è quello della migrazione, dell’esilio, per l’appunto, spesso forzato perché politico, fortemente impermeato di nostalgia, senso di estraneità anche nella propria terra di origine, non solo all’estero. E’ la letteratura di ciò che in arabo (parlato) va sotto il nome di ghorba, un termine quasi intraducibile in italiano perché racchiude in sé tante e svariate emozioni contrastanti legate alla condizione dell’esiliato.

“A casa tua muori una volta sola. Ma fi il ghurbeh, in esilio,
muori ogni giorno, per tutta la vita.”

Il secondo filone è quello dei palestinesi residenti in Cisgiordania e nei territori occupati dopo il 1967, un filone fatto di segregazione e carcere; infine, c’è una terza corrente che dà voce ai palestinesi che sono diventati israeliani: una branca, questa, che si porta con sé, quasi per forza di cose, un misto di schizofrenia letteraria e linguistica.

Nel romanzo di Suad Amiry si ricostruisce, a partire dalla toponomastica di Giaffa (ora città israeliana, un tempo palestinese, città natale del padre dell’autrice) la memoria storica di un pezzo di vita vera dei due protagonisti, Shams e Subhi che, rispettivamente a 84 e 86 anni, le hanno aperto i loro cuori confidandole i dettagli del loro struggente amore e delle loro tragiche vicissitudini. Un uomo e una donna che hanno avuto la capacità di restare umani nonostante l’immenso dolore che hanno sopportato: per questo motivo così nobile, la loro storia diventa la storia di un intero popolo, di un intero territorio.

L’intento è sicuramente molto didascalico, non prettamente politico né ideologico, quasi che l’unico pensiero della scrittrice sia proprio solo quello di narrare una (vera) storia d’amore e la storia di una famiglia: la prosa è molto scorrevole e facile da leggere, non certo noiosa né particolarmente articolata, un po’ come tipico dei romanzi anche precedenti di Suad (tra i più famosi, “Sharon e mia suocera”“Se questa è vita”, “Murad murad” e “Damasco”). La scorrevolezza della lettura è data anche dal fatto che, come da sua caratteristica peculiare, inserisce piccoli aneddoti umoristici che spezzano la tragicità degli eventi narrati (il romanzo inizia nel 1947, nella Palestina amministrata dagli inglesi, per terminare poi con la dipartita dei coloni a favore dello scoppio di una vera e propria guerra tra Palestina e Israele, la prima di una lunghissima serie…). Ironia che scatena molta empatia anche grazie alle molte parole arabe lasciate in lingua originale nel testo, quasi a ricreare quell’atmosfera di familiarità e intimità che aiuta il lettore a non abbandonare la lettura ma, al contrario, a proseguire, rapito e affascinato.
La catastrofe è annunciata ed aleggia nell’aria sopra e attorno ai personaggi, ma ciò non impedisce alla scrittrice di narrare gli eventi quasi con leggerezza: Suad non vuole spiegare la storia ma “semplicemente” raccontarla, dando ottimi spunti ai suoi lettori che potranno poi approfondirla altrove. Il suo è certamente un esempio di letteratura che, quasi inconsapevolmente, si autoaffida il ruolo di raccontare storie cancellate, in una nazione dove per eccellenza c’è fortissima propaganda e contropropaganda contro tutto questo.

La si potrebbe perfin definire una fiaba rovesciata, per la rottura di quell’equilibrio così bene descritto nelle prime pagine e poi man mano spezzato dagli eventi, un equilibrio che non ritornerà nel corso della narrazione; ma anche un romanzo di formazione a rovescio in quanto il protagonista, Subhi, è già più che “formato” dal punto di vista educativo, di crescita personale… fin all’inizio della storia.
A ben leggere già nel titolo si ritrova un rovescio, un contrario, un ossimoro: la mucca segno di benessere ebreo (ed anche arabo, o meglio, genericamente parlando, semitico) contro l’abito inglese, segno invece dell’evidente ricchezza del colonizzatore… Questi sono solo alcuni dei molti aspetti del tutto in contrasto, rintracciabili nel corso della storia, che rappresentano la contraddizione tipica della situazione palestino-israeliana.

Era da anni che non leggevo qualcosa sulla storia della Palestina e, più in generale, su quel rapporto a dir poco “malato” tra oblio e memoria, tipico (ahimé!) della ricostruzione storica che spesso vien fatta ad opera dei vinti, dei colonizzatori… Ogni volta mi affascina incredibilmente la forza che, scrittori come Amiry, mettono nel costante e imperterrito tentativo di recuperare una memoria, il più possibile, “vera”.
Nel romanzo, la si riscontra nei nomi dei vicoli, dei caffè… perfino nelle banconote con la scritta “Comitato valutario palestinese” o nel giornale “Filistin”… Tutto questo a dimostrazione che esisteva una nazione prima del 1948, la Palestina, che era in grado di stampare moneta, di redigere articoli e giornali… Un modo come un altro per “combattere” quella visione secondo cui non è mai esistito uno stato perché si sarebbe passati dal dominio ottomano a quello britannico senza soluzione di continuità, non avendo, quindi, avuto modo né tempo per sviluppare una reale identità e appartenenza palestinesi.
Un modo come un altro per “dire no” alla distruzione della memoria che l’entità occupante è sempre solita mettere in atto.

Alcuni criticano questo romanzo perché manca la voce della controparte israeliana… Sarà un caso??? A me personalmente è parsa un’ottima scelta (neanche troppo) “velata”.

Passiamo ora al secondo appuntamento del Circolo di Lettura ed al secondo romanzo… Sempre perché non voglio nascondervi proprio nulla, devo ammettere di aver seguito questo incontro, a suo tempo, senza aver terminato la lettura del libro (cosa che avrei trovato, fin solo a qualche mese fa, del tutto fuori luogo e inappropriata!!!). Nonostante la lettura “mancata”, l’incontro si è rivelato illuminante per la presenza online anche della traduttrice del romanzo, Arianna Tondi, che ha spiegato egregiamente la scelta della classicità a 360° della scrittrice libanese Rasha al-Amir: per la stesura del suo romanzo, infatti, l’autrice ha deciso di ricorrere all’uso della lingua araba più antica ed ufficiale perché vera lingua dell’animo più interiore, del vero io del protagonista, un imam. Un linguaggio che avvicina e mescola poesia, religione,… Espressioni di una stessa lingua, di una stessa cultura, seppur a volte controverse fra loro, come controverso è al-Mutanabbi, il poeta più importante della letteratura araba, gigante della poesia araba vissuto nel X secolo, a cui pare che la scrittrice si ispiri per l’intera narrazione.
La scelta di questa varietà così colta e ricercata dell’arabo – tanto da risultare a tratti difficile da capire anche per un lettore arabofono – è giustificata dal fatto che il protagonista, proprio perché imam, ha svolto i propri studi religiosi prevalentemente in arabo classico, il più puro, l'”eloquentissimo”, quello usato nel Corano.
A questo arabo fa da contraltare, nella versione tradotta in italiano, una lingua italiana altrettanto forbita, quasi “dantesca”: moltissimi sono i latinismi che ricorrono nel testo tradotto, mentre non compare alcun anglicismo né tanto meno prestiti di altre lingue straniere; numerosi sono i vocaboli desueti o dal sapore letterario, come molto lunghi sono volutamente i periodi in cui il protagonista prende la parola con piglio ridondante, ripetitivo e anche, a tratti, confusionario.

Per concludere, non vi nascondo che ne ho terminato la lettura più per principio, per quel mio esser sempre e comunque una lettrice accanita, non tanto perché mi abbia realmente affascinata… Anzi, paradossalmente, è stato l’aver conosciuto, anche solo virtualmente, la persona che l’ha tradotto a farmi trovare in seguito molto intrigante la sua lettura, anche “solo” per l’immenso e accurato zelo che Arianna Tondi ha impiegato nella sua traduzione.

A mio modestissimo parere la sua traduzione è degna di aver reso comprensibile un’intera cultura, un mondo… oltre che la sua lingua!

Per saperne di più:

Arianna Tondi, La lingua salvata. L’impresa di tradurre un romanzo contemporaneo scritto in arabo classico
Arianna Tondi, L’amore per la letteratura araba e l’impegno per il Libano di Rasha Al-Amir
Incontro con Arianna Tondi, traduttrice di “Il giorno del giudizio” di Rasha Al-Amir

Tutto iniziò… dall’Egitto!

Non è un caso che il primo romanzo di cui vi parlo qui è di un scrittore arabo, in particolare proprio egiziano (e che scrittore!!!), Nagib Mahfuz… Dall’Egitto, infatti, ebbe inizio il mio amore, o meglio – dovrei dire – il primissimo fascino che la lingua araba, e tutto ciò che questa porta con sé, scatenò in me, quando, all’età di 3 anni appena, “svernavo” dagli zii in Emilia Romagna e mi capitava di ascoltare con le orecchie ben tese le interminabili telefonate intercontinentali che mio zio acquisito, originario di Alessandria di Egitto, “zio Giorgio” – come si faceva chiamare lui all’italiana – faceva a sua madre, alle sue sorelle…

Ebbene sì, tutto cominciò così, per caso, con una coppia di zii, che dopo varie peripezie sfortunate, rimasti senza figli, avrebbero voluto adottarmi e, non avendolo potuto fare (per certi versi, per fortuna!!!), mi tenevano con loro settimane e settimane, in un clima di vera e propria vacanza che ancora ricordo come uno dei migliori periodi della mia infanzia. Alla mia famiglia, quando la sentivo, ero solita dire che “Dagli zii mi riposavo la mente!” ed era proprio così: tra una canzone di Umm Kulthum in sottofondo, un tè caldo al cardamomo o con chiodi di garofano, le telefonate per me all’epoca indecifrabili e misteriose di mio zio… e i suoi continui حبيبتي (ḥabībatī), quando si rivolgeva a me con quei suoi occhi neri e così profondi!!!

La vita poi, come si sente spesso dire, fa giri strani e, nel mio caso, ne ha fatto uno così particolare che oggi a rivolgere quell’appellativo affettuoso e pieno di amore, nella versione un po’ storpiata di “Bibo”, sono io… a mio figlio, per metà egiziano!!!

Rileggendo le pagine di “Karnak Café” di Nagib Mahfuz (perché l’ho davvero riletto per voi, cari lettori, prima di scriverci su…), prima opera tradotta in italiano del Nobel arabo per la letteratura, ho ritrovato tutto d’un colpo e d’un fiato quell’atmosfera, i suoi profumi, odori, sapori… L’atmosfera calda, accogliente e distesa di un delizioso locale del Cairo, il Karnak Cafè, un bar gestito dalla graziosa Qurunfula, un tempo famosa ballerina di danza orientale, ormai scomparsa dalle scene del mondo dorato dello spettacolo seppur ancora donna vitale, affascinante e indipendente.
Mahfuz sceglie il caffè come ambientazione principale, il luogo delle “chiacchiere” per eccellenza, come se volesse dar un tocco di vivacità a quel che sta per narrare, nonostante tutto: tra i tavoli del locale nascono vivaci discussioni sui temi più disparati; più giovani e meno giovani, ricchi e meno abbienti, si trovano ugualmente a loro agio, in un’atmosfera di pace, serenità ed amicizia… Del resto, Mahfuz sceglie anche dei personaggi alquanto bizzarri come abituali frequentatori del locale: dalla già citata proprietaria ex ballerina alla coppia di innamorati, Isma‘il e Zaynab, dal dissidente socialista, Hilmi Hamadi, del quale Qurunfula si innamora perdutamente, a un informatore del regime, ambizioso e privo di scrupoli, Khalid Safwan… Giusto per elencare i principali, a cui l’autore dedica interi capitoli.

“Fu così che mi capitò di entrare nel Karnak Café.
Mi sentii attratto da un’oscura forza magica e da una certa leggerezza d’animo, e tutto per una persona che non aveva mai nemmeno sentito parlare di me. Non avevamo mai avuto alcun tipo di rapporto, né affettivo né d’interesse, nemmeno di semplice cortesia.
Per un certo periodo era stata una vera e propria diva, mentre io ero semplicemente un suo coetaneo. Gli sguardi ammirati che indirizzavano alla sua figura ancora splendida sembravano non avere alcun effetto su di lei, e pensai di non aver motivo per avvicinarmi e salutarla.
Così mi limitai ad accomodarmi e iniziai a guardarmi intorno nel locale.”

Così si legge in una delle primissime pagine di questo breve romanzo, narrato interamente in prima persona: a raccontare la storia di questo locale e delle vite che lo attraversano è, infatti, una voce esterna, laterale, quasi defilata… Come un testimone che non vuol esser coinvolto più di tanto in ciò che sta riportando, in quello che osserva, giorno dopo giorno. Tra le poche pagine di questo libro, infatti, è racchiusa una vicenda triste e cruda, quella della sparizione nel nulla, da un giorno all’altro, improvvisamente e poi anche a più riprese, di alcuni dei giovani clienti, frequentatori del caffè. I tre giovani, dopo una prima ricomparsa che riporta fiducia e speranza alla narrazione e ai suoi personaggi, non si presenteranno più perché – si lascia intendere tra le righe, e neanche così tanto tra le righe… – arrestati e torturati, in quanto sospettati di aver preso parte ad attività antigovernative.
Il tutto è ambientato in un periodo storico cruciale per l’Egitto, gli anni Sessanta del XX secolo: forti disordini scombussolano gli equilibri del paese in quegli anni, gli anni del presidente egiziano Nasser, protagonista della rivoluzione socialista ma anche della successiva svolta autoritaria (non è un caso che il libro fu pubblicato nel 1974, qualche anno più tardi rispetto alla sua stesura ma soprattutto rispetto alla morte di Nasser, avvenuta nel 1970); disordini che si protrassero fino a giungere poi, anni dopo, all’assassinio di Sadat…
Nonostante le allusioni a questi eventi drammatici, il racconto di situazioni così angosciose è stranamente leggero, quasi piacevole… Per non dire superficiale!!! A discolpa di questo, bisogna dire che non è da tutti saper riportare, in un racconto romanzato, spensierato e disinvolto al tempo stesso, un pezzo di storia e società così importante e difficile dell’Egitto moderno, soprattutto se lo si fa immergendo il lettore in un semplice caffè, un ambiente famigliare, quasi domestico… Come se si volesse trasmetter un messaggio a dir poco terrificante e cioè che ciò di cui si sta parlando è quasi all’ordine del giorno in certe parti del mondo.

Che cosa è accaduto a tutti? Sembra che ci siamo trasformati in una nazione di perversi. Nelle nostre vite quotidiane abbiamo pagato gravosi costi – la sconfitta e l’ansia –
che sono riusciti a distruggere il nostro senso dell’onore”.

Per questo motivo, se da un lato quell’“oscura forza magica” e quella “certa leggerezza d’animo” attraggono il lettore – come del resto, mi vien da aggiungere perché provato personalmente, capita anche al visitatore, al viaggiatore in paesi come l’Egitto… -, dall’altra la lettura di un testo del genere scatena anche sentimenti contrari, pesanti… contrastanti per quella fisiologica riluttanza che l’essere umano prova per atti repressivi e autoritari, come la bieca tortura. Non manca anche una certa sensazione – nello scrittore come nel lettore – di totale rassegnazione e accettazione (non vi aspettate, infatti, un finale liberatorio, rivelatore di chissà quale mistero… L’autore si limita a raccontare ciò che ha visto e che gli è stato confidato… ) di quel che succede tra le pagine di questo libro che lascia dell’amaro in bocca, tanto più, se riletto – come ho fatto io – nel 2021, a distanza sì di molti anni dagli eventi narrati, ma anche proprio in quel decimo anniversario delle rivoluzioni arabe che videro in prima linea proprio questo paese, quasi a riprova che, malgrado l’inerzia provata davanti al dolore della prigionia e delle torture, la speranza sia davvero l’ultima a morire… in certe parti del mondo!!!

P.s. Una piccola digressione… Se mai sarete di passaggio dal Cairo, non potete perdervi il Naguib Mahfuz Coffee Shop in pieno centro storico della capitale, in uno dei quartieri più caratteristici della città, Khan El Khalili: un locale molto particolare, con sale e salette in stile arabo “di una volta”, celato nel dedalo intricato di viuzze, bottegucce e negozietti del gran bazar del Cairo…
Per non parlare del Café El-Fishawy che serve tè da quando Napoleone invase l’Egitto: anch’esso nel cuore della Cairo Islamica, aprì le sue porte nel 1797 (per intenderci, un anno prima che Napoleone Bonaparte invadesse l’Egitto…) e divenne il luogo preferito, molti anni dopo, dello scrittore Mahfuz, che – alcuni narrano, tra cui il padrone di casa… – proprio qui compose la maggior parte della sua famosa trilogia…

Caffè, tè… ME!

Ogni volta (o quasi!) che qualcuno attorno a me pronuncia la parole “caffè” o “tè”, ancor di più se entrambe insieme, mi viene in mente la scena del film “Una donna in carriera” (Mike Nichols, 1988) dove l’attrice Joan Cusack, fingendosi segretaria, rivolge all’affascinante Harrison Ford la battuta culto “Le porto qualcosa Signor Trainer? Caffè, tè.. Me!”… Non so come mai, ma a me fa proprio morir dal ridere quella scena!!!
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Scherzi a parte, chi è che non inizia la propria giornata con un buon caffè o una bella tazza di tè? Io sicuramente lo faccio e penso anche moltissimi di voi… Ma sapete da dove provengono realmente questi prodotti? 
Nell’immaginario collettivo, si pensa sempre che il caffè sia sudamericano, il tè indiano e il cacao africano perché oggi come oggi, dalla metà del 1700 in poi, sono queste le zone dove si producono e da cui vengono importati in giro per il mondo. In verità, però, il caffè nasce in Africa, sull’altipiano etiopico mentre il tè in Estremo Oriente, nella regione settentrionale e montagnosa del Sichuan cinese e, infine, il cioccolato proviene dall’America Latina, inizialmente dal bacino amazzonico, per poi ritrovarlo in Messico e Guatemala.
Forse però ciò che si sa ancor meno è che tutti e tre questi prodotti, oggi così in uso e alquanto commerciali e quindi anche reperibili a buon costo, fossero un tempo considerati bevande dal gusto e dagli effetti decisamente “esotici”, per lo meno in Occidente e in Europa, non solo e non tanto per la loro provenienza quanto perché si pensava che facessero decisamente molto bene alla salute e, proprio per questo motivo, il loro valore anche economico era inestimabile, al pari delle spezie che arrivarono così a sostituire, nelle rotte commerciali, a partire dalla metà del 1600 (a mo’ di esempio, si pensi che mezzo chilo di tè valeva all’incirca 1.500 euro e una libra di caffè addirittura 2.000!!!).

cocoa beans and retro scoop with cocoa powder

L’altra curiosità molto particolare legata a questi tre prodotti è la forte associazione con rituali religiosi di varia natura che veniva loro riconosciuta: si pensi che la cioccolata veniva perfino definitiva “bevanda degli dei”, molto probabilmente dall’etimologia del nome della pianta del cacao Theobroma cacao, che reca in sé l’idea di “dio” (theos)!
Il caffè e il tè non erano da meno: al primo si dava il merito di tener svegli, tonici e di eccitare i sensi e queste erano tutte peculiarità che tornavano molto utili nei lunghi periodi di digiuno previsti dall’Islam ma anche nelle meditazioni mistiche e nelle veglie di preghiera di sufi e dervisci. Dall’Africa, infatti, il caffè venne ben presto trapiantato dall’altra parte del Mar Rosso, in Yemen, dove il clima e il terreno erano più favorevoli alla crescita delle sue piantagioni: proprio da qui il caffè venne diffuso nell’intero mondo arabo-islamico e non solo, a partire dalla città portuale di Mokha, da cui prende il nome la nostra (per lo meno, mia!) amatissima “moka”!!!CAFFè
Il tè, invece, si diffuse dalla Cina verso il Tibet e verso il Giappone proprio grazie a movimenti religiosi, buddisti – ortodossi e zen – e taoisti, ambienti dove era consumato in grandi quantità perché anch’esso forte alleato di digiuni, meditazioni e veglie.

Poco conosciuta – io credo – sia anche la storia dei locali dove queste bevande furono per la prima volta preparate, vendute e consumate in pubblico: insomma, la storia della nascita e dell’evoluzione delle prime caffetterie e dei primi bar, come li chiamiamo oggi (per lo meno in Europa e nel mondo occidentale, perché se viaggiate in un paese arabo, una delle prime cose di cui vi accorgete, andando come matti alla ricerca di un caffè per lo meno bevibile, se non anche soltanto deglutibile – perché lo cercherete prima di quanto immaginereste mai, ve lo garantisco!!! -, è che questi luoghi non si chiamano affatto “bar” bensì genericamente “caffetterie” usando spesso il termine corrispondente in francese o in altra lingua veicolare del posto… o in arabo, che letteralmente suona come “luogo del caffè”, مقهى (maqhā), dal termine (di genere femminile!) قهوة (qahwa), cioè per l’appunto “caffè”.
I “bar” esistono in tutto il mondo e quindi anche nei Paesi Arabi, qui tuttavia sono i corrispondenti dei nostri locali noti come “pub”, dove è risaputo ci si ritrovi per consumare prevalentemente alcolici ed anche magari per altri fini… A questo proposito, infatti, il termine bar deriva dall’inglese: “at the bar” è un’espressione che, in questa lingua, viene usata per indicare la sbarra corrimano, o più genericamente il bancone, a cui ci si appresta per la consumazione di bevande alcoliche, in locali spesso dediti esclusivamente alla vendita di questo genere di prodotti. Altre etimologie rimandano anche proprio al divieto che in Inghilterra vigeva circa l’uso degli alcolici nel corso dei secoli (molto probabilmente da barred cioè “barrato, vietato” o qualcosa del genere).
Ritornando alle primissime caffetterie, queste nacquero proprio in Europa a metà del 1600 sulla scia dell’importazione sempre più massiccia del caffè: pensate che nel 1663 Londra, vera e propria patria del caffè in Occidente a quell’epoca (chi lo direbbe mai oggi, no???) contava già 82 caffetterie, nate come luoghi di ritrovo e discussione, molto simili ai nostri attuali “caffè-pasticcerie”.
Da Londra a Parigi, per arrivare fino al Cairo e Istanbul (dove ben presto, dopo la conquista ottomana, l’uso di questi prodotti perse il suo valore religioso, diventando più laicizzato), la moda dei caffè si espanse sempre di più e da luoghi di evasione e piacere, questi locali assunsero anche e soprattutto una funzione sociale diventando veri e propri punti di riferimento della vita pubblica e di molte attività professionali di una sempre più emergente società moderna e borghese. Dall’attività finanziaria a quella letteraria, dall’artistica fino alla giornalistica per passare a quella politica… Questi locali saranno presto il palcoscenico principale di un nuovo modo di stare in società (che dura ancora oggi, se vogliamo…): in caffetteria si andrà per apparire, comparire, presenziare, discutere e farsi così rispettare e apprezzare per le proprie idee in merito a scienza, letteratura, finanza… E con il passaggio dal caffè al tè, nella Londra del 1700 (dovuto a motivi prettamente e unicamente commerciali, per quanto all’epoca si pensasse fosse anche per l’inadeguatezza del caffè quale bevanda per famiglie e adatta a tenere gli animi tranquilli…), a questa nuova, diversa e moderna vita sociale con i propri luoghi e rituali avranno accesso anche le donne, per la prima volta!!!

Per saperne di più:
Antinucci F., Spezie. Una storia di scoperte, avidità e lusso, Editore Laterza, Roma, 2014
Bealer B. K., Weinberger B. A., Tè, caffè, cioccolata. I mondi della caffeina tra storie e culture, Donzelli, 2009
Terzi M., Dalla parte del Caffè. Storia, ricette ed emozioni della bevanda più famosa al mondo, Pendragon, 2012

A qualcuno piace “speziato”…

Scrivo questo post sulle spezie proprio oggi, dopo aver saputo della proroga fino al 1^ novembre 2015 al MAO – Museo d’Arte Orientale di una delle mostre fotografiche che più mi ha affascinato e “drogato” in questi ultimi tempi, “Sulla rotta delle spezie. Terre, popoli, conquiste”, allestita in collaborazione con National Geographic Italia e con la consulenza dello storico (nonché amico!!!) Alessandro Vanoli. Tra i fotografi autori dei 73 scatti in mostra vi sono, solo per citarne qualcuno, Steve Winter, Joel Sartore, Steve Raymer, Pascal Maitre… E molti altri.
Una mostra che merita d’esser vista, annusata e gustata con tutti i sensi grazie anche a quella sorta di “altare delle spezie” posto nella seconda sala – alla quale si accede dopo un’introduttiva mappa rappresentante le varie rotte per lo più marittime delle spezie, i mercati ed i mercanti – completamente a disposizione dei visitatori che potevano così letteralmente “sniffare” le varie polveri esotiche e profumate grazie a dei recipienti pensati appositamente, dai quali traspaiono le loro mille sfumature di colori, dall’oro al carminio.
11825886_463823847132596_4113441418620762812_nUn’installazione che ricorda – a chi ci è stato almeno una volta nella vita – un suq arabo, con sale dedicate ad ogni singola spezia, dal peperoncino alla noce moscata, dallo zafferano ai chiodi di garofano, passando per zenzero, vaniglia, cannella e sesamo. Un percorso molto particolare che ha suscitato in me la voglia di approfondire qualcosa in più di questo così noto ingrediente, di cui basta un pizzico, quello giusto, né troppo né troppo poco, per fare la differenza nei nostri piatti.

Da piccola quando studiavo questo fenomeno, le cosiddette “scoperte geografiche”, ho sempre pensato – e forse molti di voi, cari lettori, hanno fatto lo stesso – che fossero il risultato di grandi gesta eroiche da parte di “scopritori” (e poi conquistadores) o aspiranti tali che, grazie al loro incredibile coraggio, si spingevano oltre le famose colonne di Ercole per sfidare i propri limiti, mossi da un’insaziabile voglia di sapere e conoscere cosa si nascondeva ai loro occhi, al di là del bacino del Mar Mediterraneo. In realtà a sottendere questi movimenti, vi erano come sempre interessi molto meno elevati e di altro genere, prettamente commerciale: ancora oggi è il potere economico che spinge le persone ad emigrare dal proprio paese di origine, no?
Mettersi in mare e, quindi, spesso in situazioni di pericolo verso luoghi altrettanto pericolosi anche solo perché ignoti era dettato da precise regole e rotte, in quanto ci si dirigeva verso quei posti sì lontani ma dove era possibile acquistare particolari merci che, una volta riportate indietro, garantivano un elevato guadagno… Se poi si scopriva qualcosa o qualcuno ancora meglio!!!
Tra le merci particolari e facilmente rivendibili ad alto costo c’erano le spezie ma anche le essenze odorose e le pietre preziose: ciò che accomunava questi tre prodotti era la loro fondamentale inutilità e quindi il lusso che ne derivava per le persone che ne possedevano in gran quantità. L’uomo, infatti, ha bisogno, ancora oggi, di cose utili perché gli servono a mantenerlo in vita; ma anche di oggetti o – aggiungo io – di attività inutili perché sono ciò che davvero lo rappresentano, ciò che gli permettono di costruirsi un’immagine e un’identità davanti all’Altro. Nello specifico, le spezie davano, di chi ne possedeva molte e investiva anche molti denari in questi viaggi di scoperta di nuove rotte, l’idea di una persona ricca, al vertice della scala sociale proprio perché poteva permettersi tutto questo. Lusso, cura, ostentazione, segno di distinzione sociale: un tempo, le spezie erano tutto questo e molto altro ancora. Il lusso è ciò che non serve, ciò che è di più come le spezie che di per sé non nutrono, non curano, non producono miglioramenti (almeno a quell’epoca non se ne conoscevano le proprietà salutari o per lo meno non erano mai state scientificamente attestate); il lusso è sinonimo di ricchezza, esclusività, ma anche di rarità e costosità.

IMG_6592Le rotte verso l’Oriente, in epoca romana, partivano proprio da un paese oggi arabo, l’Egitto, precisamente dalla città di Alessandria per quelle marittime che prendevano la volta del Mar Mediterraneo e poi del Mar Rosso, e da altre zone più a sud lungo il Nilo per quelle che dal Mar Rosso sfociavano direttamente nell’Oceano Indiano. Si viaggiava, infatti, per lo più sull’acqua a quel tempo: era il modo più sicuro, più rapido e meno costoso. Dall’Oriente, in particolar modo dall’India in primis ma anche dalle Isole delle Spezie (le Molucche) si portava il pepe, l’avorio e il nardo, essenza odorosa pregiata usata sotto forma di olio o di unguento il cui profumo era considerato il più prezioso nell’antichità tanto da attribuirgli nel Vangelo un valore parabolare.
Il pepe, tuttavia, rimaneva la merce migliore per il commerciante in quanto agevole da procurare, coltivabile e facilmente smerciabile perché molto usato in cucina. Soprattutto nella cucina romana che presentava molte analogie con quella orientale, nella fattispecie quella cinese: non si tratta di derivazione una dall’altra né di un rapporto di parentela/filiazione o di una vicinanza dovuta al contatto tra i due popoli, quanto di una somiglianza strutturale (la cucina è un sistema simbolico in cui solo alcune “strutture” – nel senso di combinazioni – sono possibili e quindi per forza di cose sorgono somiglianze tra le cucine che però non generano necessariamente rapporti di alcun genere tra le culture culinarie o di altro tipo prese in esame). La somiglianza risiedeva nella forte presenza dell’agrodolce/agropiccante/dolce-salato (entrambe le cucine facevano largo uso di zucchero, aceto, soia e pepe mescolati tra loro nella medesima pietanza); nella massiccia presenza del vino nelle salse (vino di riso per i cinesi); nell’uso del coriandolo come erbetta e, infine, nel ricorso alla tecnica della “doppia cottura”.
Molto diversa, invece, sarà la cucina più tarda, del periodo medievale e poi moderno, in quanto particolarmente influenzata dalla cultura culinaria di matrice araba. In questo caso si può a buon diritto parlare di contatto e di derivazione vista la forte espansione arabo-islamica che interessò il bacino del Mediterraneo a partire dal V-VI secolo d.C. tanto da far diventare questo mare un mare a tutti gli effetti musulmano, per lo meno fino alla prima crociata agli inizi del XII secolo con la presa di Gerusalemme e lo stabilirsi dei regni crociati in Siria e Palestina. Per questo motivo, d’ora in avanti sarà Venezia il punto di partenza delle rotte delle spezie e la via più battuta verso l’Oriente quella che collega questa città a Costantinopoli tenendo conto lo stretto legame presente tra queste due realtà entrambe sotto il dominio bizantino, essendo Venezia stessa una dipendenza dell’esarcato ravennate governata da un Dux (poi diventato Duge) nominato dal governo bizantino stesso. Da Venezia, poi, le spezie arrivavano lungo il Po nel nord Europa per la prima volta, una vera e propria rivoluzione che ne permise l’ingresso nelle cucine oggi a noi note e vicine. Dal nord Europa provenivano le popolazioni germaniche, molte delle quali, invasero i territori dell’Impero Romano e così nella cucina romano-mediterranea (così chiamata perché caratterizzata da ingredienti quali il grano, il vino e l’olio) si andarono ad aggiungere carne, birra e latte, tipici della cucina nordico-germanica. In realtà queste due cucine non si opponevano tra loro, se si nota che le due triadi sono costituite entrambe da due elementi principali della dieta – grano e carne -, due bevande fondamentali – vino e birra – e due condimenti grassi centrali – olio e burro. La carne e i grassi animali divennero centrali in questa nuova cucina medievale, che vide anche l’introduzione di nuove spezie come lo zafferano, la cannella, i chiodi di garofano, il cardamomo e la noce moscata-macis. Tra queste, nonostante la sua origine mediterranea (dalla Persia al Marocco), il primo prenderà il posto del pepe in epoca romana, in quanto di difficile coltivazione e raccolta: lo zafferano si ottiene dagli stigmi di un piccolo fiore, quello della piantina Crocus sativa ed avendo ogni fiore tre stigmi, bisogna staccarne almeno 45.000 per ottenere, dopo l’essiccatura, un etto soltanto di questa spezia! Conta poco quindi da dove provenga, se dal lontano Oriente o da sotto casa (oggi l’Abruzzo è la regione dello zafferano per eccellenza in Italia!): il suo valore è comunque elevato, tanto da costare ai giorni nostri 2.000 euro l’etto!
Oltre a queste nuove spezie, alla cucina medievale, sotto la dominazione arabo-islamica, si aggiunse lo zucchero, che è sicuramente un “prestito” arabo (da سكر – sukkar) per l’appunto in quanto solo gli Arabi disponevano a quel tempo di mulini ad acqua e di manodopera umana.
Si può dire che nella cucina medievale va scomparendo a poco a poco quel sapore agrodolce che aveva fortemente caratterizzato la cucina romana ed i sapori, per la prima volta, sono separati se non perfino segregati ognuno in un piatto diverso dall’altro: nascono così piatti tipicamente salati, altri dolci ed anche modalità diverse di servirli… Proprio come in un nostro moderno menù che si rispetti!
L’agrodolce o agropiccante scomparendo diventa “esotico” perché poco rintracciabile in questa fetta di mondo e spezie come il ligustico, la ruta, il coriandolo ma soprattutto il cumino vengono etichettate, per asimmetrica conservazione, “orientali” tanto da soprannominare, ad esempio il coriandolo, il “prezzemolo cinese”!

Non mi soffermo molto sulla storia delle rotte delle spezie – basta ed avanza ciò che si impara sui libri di storia su figure come Bartolomeo Diaz, Vasco da Gama, Cristoforo Colombo… Magellano e molti altri – se non per ricordare che dopo Venezia il monopolio di queste spedizioni passò in ordine al Portogallo, alla Spagna, all’Olanda e all’Inghilterra, piccoli paesi geograficamente parlando per dimensioni che, grazie a queste imprese, divennero grandi se non perfino veri e propri imperi! Il Portogallo fu il primo ad aprire la via africana per le Indie e fu anche il primo, ancor più che in passato, a rendere questi viaggi di esplorazione e scoperta (nonché commercio di quanto trovato), vere e proprie manovre di conquista, con la “scusa” di dover convincere e convertire alla “vera” fede, quella cristiana, gli “infedeli” musulmani fino a quel momento unici detentori del Mediterraneo. Schiavismo, pirateria e rapimenti di persone in cambio di lauti riscatti furono per secoli il pane quotidiano del Portogallo che riuscì a impossessarsi di molti territori di cui ad oggi resta solo a livello linguistico e culturale il Brasile che, come molte altre nuove località dell’epoca, prende il nome dal brasile, un legno pregiato da cui si ricavava una tintura rossa particolarmente apprezzata nelle stoffe )altri esempi di questa usanza sono la Costa del Grano, la Costa d’Avorio, la Costa d’Oro, la Costa degli Schiavi…).
Si può quindi parlare di una sorta di “pre-colonialismo” camuffato sotto l’odore di spezie?!?! Credo proprio di sì… Controllare la produzione di una certa spezia, la sua distribuzione e vendita implica anche una vera e propria conquista e possesso dei luoghi in cui tutto ciò avviene.
Finirò con il dirvi che l’uso massiccio di spezie resta una caratteristica di quasi tutte le cucine del passato, anche di quella più tarda rispetto alle epoche considerate, molto diverse quindi dalla cucina nostrana di oggi. C’è una differenziazione temporale tra spezie più o meno usate a seconda dei momenti storici, più che una differenziazione geografica praticamente inesistente.
Bisognerà aspettare il 1600 ed i secoli successivi per assistere alla completa scomparsa delle spezie nella cucina a favore di una sorta di nouvelle cuisine, molto più semplice e soprattutto caratterizzata dalla netta segregazione dei gusti e delle forme: una vera e propria rivoluzione per quel tempo, dovuta all’aumentare delle importazioni e quindi al calo dei prezzi (le spezie da prodotto di lusso diventano man mano alla portata di tutti e per questo motivo non più così significative a livello rappresentativo e identitario), che porta a tenere distinti i sapori, a valorizzare i gusti naturali e a non usare più le spezie come “mascheramenti” del gusto reale dei cibi. Si riducono drasticamente anche le preparazioni dolci a favore di quelle salate ed il dolce viene segregato a dopo il pasto, come complemento, quasi non si volesse lasciare vuota la tavola a fine pasto. Di solito si trattava di frutta, fresca ma anche di composte e conserve… Il famoso dessert (dal francese desservir cioè “sparecchiare”) così come lo conosciamo ancora oggi!
Il gusto dolce scompare insieme alle spezie che tradizionalmente ne erano la causa, come lo zucchero e la cannella… Non si mescola più, non si corre più, non si armonizza più ma al contrario si esalta al massimo di accompagnare il gusto naturale dell’ingrediente.
Ogni epoca, quindi, ha la sua “droga”… Per alcuni sono state le spezie, per altri le conquiste, le esplorazioni,… Oggi il “bio”, il “senza glutine”, il “senza olio di palma”… Ad ognuno la sua, bella o brutta che sia!
Buona lettura e soprattutto buona visione della mostra!

Per saperne di più:
Antinucci F., Spezie. Una storia di scoperte, avidità e lusso, Editore Laterza, Roma, 2014
Schami R. e Fadel M., La città che profuma di coriandolo e di cannella. Le ricette, i sapori e le storie di Damasco, Garzanti, Milano, 2010
Turner J., Spezie. Storia di una tentazione, Araba Fenice, Cuneo, 2006

…E se siete di Torino ed appassionati o anche solo curiosi di spezie non potete non fare un salto all’Atelier MADAGASCAR a Borgo Dora, vicino al mercato di Porta Palazzo!

TAMO t’amo!

TAMO… Sembra esser l’inizio o il titolo di una canzone o di una lettera d’amore, di quelle che hai sentito o letto un miliardo di volte e che, in fondo, non ti annoi mai di risentire e rileggere… E invece no! Chi l’avrebbe mai detto che è il nome, acronimo, di uno dei due musei di Ravenna dedicati all’arte del mosaico?
TAMO sta per “Tutta l’avventura del mosaico” perché è proprio un’avventura – quasi amorosa!!! – quella che si vive in questo museo e, più in generale, nel mondo dell’arte musiva perché il mosaico incanta e stupisce e, al tempo stesso, insegna molto come le storie d’amore, bene o male che vadano. E così, quest’anno ad agosto, mi sono ritrovata a vivere la magia del mosaico per le strade di Ravenna – dove quest’arte ha raggiunto negli anni e nei secoli la sua massima espressione – e in luoghi come TAMO. Come l’avventura è di per sé una suggestiva ed accidentale esperienza, così è stata anche la mia visita al TAMO, un luogo che esprime in ogni suo angolo la voglia e l’ambizione di raccon12077504_10206885182520281_1047981418_ntare davvero l’arte musiva, antica e moderna, a 360°. Un luogo che spiega con semplicità e chiarezza che cosa il mosaico è stato ed è, di che cosa è fatto e cosa è stato fatto per conservarlo, in ben cinque sezioni, ciascuna dedicata ad un aspetto ben preciso di quest’arte (le pavimentazioni, i palazzi ecclesiali, le residenze private, i materiali e la storia). Non voglio però dilungarmi troppo sul museo perché dovete vederlo, almeno una volta nella vita… E se non potete o volete, date almeno un’occhiata al sito www.tamoravenna.it!
Voglio invece parlarvi di una singolare esperienza di scambio, anche se un po’ datata, in questo specifico settore tra questa città e la capitale siriana di Damasco in occasione di una mostra organizzata nel 2007 dal titolo “Mosaici d’Oriente. Tessere sulla via di Damasco” (che richiama un po’ l’ispirazione ad aprire questo blog proprio durante il soggiorno ravennate…).
Per purissimo caso sono capitata sul mini-catalogo di questa mostra temporanea, un librettino ricoperto da un sottile strato di polvere che, tuttavia, era messo ben in vista nel bookshop del TAMO, quasi come un piccolo trofeo… Per lo meno questa è l’impressione – molto probabilmente distorta, per mia deformazione profssionale – che ne ho avuto io appena l’ho scorto, quasi mi dicesse “E dai, Paola, comprami… Non lasciarmi qui, su questo piccolo scaffale… Lo sai meglio di me, se tu non mi prendi mi butteranno”… E così eccolo, già tra le mie mani e nei miei occhi ancor prima di uscire dal museo! In un attimo mi sono tuffata in queste forme geometriche e figurate dei mosaici pavimentali della Siria del nord risalenti al V-VII secolo d.C., fatte da sorte di nastri annodati tra loro, sottesi o ancora secanti, decorati in var12053280_10206885182600283_765803631_nia maniera; a questo carattere prettamente geometrico, che sembrerebbe tipico dell’arte musiva orientale ancor più che di quella occidentale, si accompagna anche un repertorio di composizioni di tipo floreale-stilizzato che mi hanno ricordato immediatamente il cosiddetto “arabesco”, uno stile ornamentale spesso usato nell’arte calligrafica ed anche nella ceramica e caratterizzato proprio dal ricorso a forme geometriche o fitomorfi. Il termine deriva dal fatto che lo stile era adoperato, e lo è ancor oggi, per decorare le superfici perimetrali, sia esterne che interne, soprattutto di moschee (e le moschee sono per antonomasia i luoghi di culto che ritroviamo per lo più nei paesi arabi). In realtà questo stile in lingua araba è dettoالتوريق‭ ‬ – at-tawrīq‭ ossia usare come unità-base la foglia o il fiore,‭ ‬privata della sua forma naturale per non dare un senso di debolezza e di morte. In questo modo si conferisce all’immagine una sensazione di esistenza e immortalità, sensazione che in qualche maniera va espressa in una fede, come quella islamica, che è iconoclasta, cioè proibisce le raffigurazioni umane.
Questo ornamento si ritrova proprio in Siria e in Egitto in modo particolare grazie all’intarsio di marmi e tasselli colorati che creano effetti cromatici incredibili, rintracciabili anche nelle stoffe d’arte: non per niente questi due paesi si trovano su quella che un tempo era la Via della Seta (e delle spezie… A cui sarà dedicato il mio prossimo post!), sede di notevoli laboratori tessili. Questa derivazione tessile dell’arte musiva orientale è rappresentata dal mosaico pavimentale che è come un tappeto, un manto che sontuosamente ricopre intere stanze o perfino interi palazzi, in ambito profano e sacro.

Così dai mosaici d’Oriente del TAMO ho fatto un salto indietro nel tempo e nello spazio a una delle mie primissime visite al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, la mia città natale, di cui non potrei non esser fiera, da brava arabista e islamista che sono! Averne uno in città, tutto “tuo” è più che una fortuna… Se poi all’interno c’è anche una bella seppur piccola sezione dedicata all’arte islamica, ancor di più lo senti tuo! E proprio qui sono esposti dei bellissimi tappeti, o meglio semplici tessuti (molto probabilmente non erano usati all’origine come tappeti da preghiera, sebbene siano molto simili a questi) che un tempo fungevano da copri-cuscini o da abiti la cui provenienza è l’antica città turca di Bursa, caratterizzati da motivi decorativi molto simili a quelli sopra citati. Manca l’ornamento calligrafico, in quanto essendo poi stati usati nel corso del tempo anche come tappeti da preghiera ed essen12081433_10206885182560282_345570801_ndo spesso le scritte calligrafiche riproduzioni artistiche di versetti tratti dal Corano, non era possibile calpestarli vista la sacralità della parola coranica, in quando divina.

Dalla Siria, all’Egitto, alla Turchia… Fino ad arrivare, seguendo virtualmente l’antica Via della Seta, ai famosi tappeti di Bukhara in Uzbekistan dove la dote nuziale – fatta di oggetti di uso quotidiano come servizio da tè, posate, asciugamani, biancheria varia, pezzi di stoffa per confezionare vestiti, intimo… – viene preparata fin dalla nascita di una figlia femmina e deposta dentro un sunduq (scrigno).
Tra questi oggetti c’è il suzani, un tipo di tessuto lavorato ad ago con decorazioni tribali tipiche del Tagikistan, dell’Uzbekistan, del Kazakistan e di altri paesi dell’Asia centrale il cui nome deriva dal persiano سوزن che significa appunto “ago”. Si tratta di tessuti di solito realizzati su una base in cotone (talvolta di seta) e lavorati a ricamo con fibre in seta o cotone che possono essere di diverse dimensioni a seconda dell’uso come tovaglia, copriletto, federe. I motivi iconografici più popolari dei suzani sono i simboli della luna e del sole, i fiori (in particolare tulipani, garofani e iris), foglie, piante e frutta (specialmente melograni), ma anche pesci e uccelli, proprio come nei mosaici di cui prima.
Ritornando ai tappeti è curioso il fatto che esista un tipo di tappeto noto come “bukhara” che in realtà non veniva prodotto a Bukhara ma dalle tribù nomadi del vicino Turkmenistan. Gli abitanti di Bukhara non erano, infatti, nomadi ma sedentari nonché abili commercianti della Via della Seta. Questi tappeti si potevano trovare nei mercati di Bukhara e nel gergo dei commercianti venivano chiamati con il nome della città in cui si vendevano, non in quella in cui venivano prodotti che resta ancora enigmatica. In Asia Centrale i tappeti si usano oggi sia per coprire i pavimenti sia per decorare i muri, come fossero arazzi. Restano ancora un classico e prestigioso regalo per le nozze. Purtroppo nell’uso quotidiano i tappeti sintetici industriali a basso costo hanno rimpiazzato i tappeti artigianali di produzione locale ed un tappeto di lana o di seta è diventato quasi un lusso accessibile ai ceti ricchi e ai turisti stranieri che acquisterebbero di tutto e di più… Ma di questo e di altri prodotti artigianali a rischio di estinzione parleremo magari in un altro post!
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P.S. Le foto qui riportate sono state scattate al TAMO di Ravenna.

TI – JA – SI… Il “mio” mosaico!

IMG_5737Sarebbe contento il mio compagno, appassionato di Medioevo e di mondo latino e greco, di sapere che la parola “mosaico” deriva proprio dalla forma latina medievale del XIV secolo musaĭcum (opus) cioè “(lavoro, opera) dedicato alle Muse”: si narra, infatti, che le grotte artificiali dedicate alle muse nelle ville romane venivano decorate con una specie di mosaico. A me, al contrario, spiace che questo termine abbia le proprie origini nel Medioevo… Sarà che fin da piccola a scuola me ne parlavano come di un periodo oscuro, cupo e triste per quel buio dell’ignoranza che sembrava caratterizzarlo… Sarà poi davvero così?
In fondo nel Medioevo sono apparsi i primi mulini ad acqua, l’aratro pesante, l’orologio meccanico, gli occhiali, la stampa a caratteri mobili… !!!

Ritornando a noi, per la mia forma mentis un po’ mi spiace; d’altro canto, invece, mi rallegra che ci sia una certa qual connessione con le muse, figlie di Zeus e la Dea della Memoria (come si chiamava già? Mi sfugge ora il suo nome… 🙂 ) e quindi dee esse stesse, talmente divine da detenere un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia degli Dei dell’Olimpo: rappresentavano l’ideale supremo dell’Arte intesa come verità del “Tutto” ovvero eterna magnificenza del divino!

Questo blog vuol proprio esser un luogo di discussione e scambio di informazioni artistiche e culturali… E cos’è l’arte se non l’espressione di qualcosa di più alto di noi, di metafisico seppur non necessariamente identificabile con un esser divino ben preciso! A mio avviso, tuttavia, nell’arte, pur essendoci qualcosa di superiore, un’energia attrattiva verso l’alto, verso l’esterno da te così forte da estraniarti da tutto il resto che ti circonda, coesiste anche un aspetto più terreno in quanto frutto delle mani (e del pensiero) di un uomo, di un essere che di divino spesso ha ben poco ed allora ecco che entra in gioco l’altra faccia del mosaico, quella fatta di tasselli da combinare tra loro, da ordinare, da incastrare affinché si componga l’immagine di cui si era fatto solo uno schizzo veloce nel cartello, come la migliore tradizione musiva insegna di modo da tracciare il percorso che le tessere devono fare prima di giungere al risultato finale, in un rapporto costante con la pittura che le precede e su cui si basano con maggior o minore inclinazione e pressione così da sortire effetti differenti a seconda della mano che sta componendo il mosaico. Mettere a posto i pezzi raccolti in questi anni di totale dedizione al mondo arabo-islamico ma anche cristiano, ebreo, ateo… (magari questo sarà l’argomento di un post…), riordinarli dando loro un senso migliore di quanto sia riuscita a fare finora, raccoglierne altri di colori, sfumature, profumi diversi e incastrarli con quelli che ci sono già… Ma anche scartarne altri finora considerati fondamentali con l’intento di creare un quadro sempre più chiaro ma anche in continuo movimento e cambiamento delle zone in questione a partire dalle loro proposte culturali ed artistiche.

Questo sarà il “mio” mosaico a cui anche voi potete contribuire con i vostri tasselli sperando di costruirne uno che riesca a incantare e stupire… Da quale pezzo iniziamo??? Io ho iniziato da alcuni pezzi della mia vita professionale e personale importanti dalle cui prime due lettere iniziali (TI-ziri, JA-whara, SI-mone) nasce questa idea… E voi?